Coffee Break #18 – Cecilia e l’arrampicata inimmaginabile
Daniela Zangrando nella 18esima puntata del suo Coffee Break propone un estratto del carteggio con l’artista Cecilia Borettaz, un viaggio che si arrampica negli invisibili spazi tra la verticale e l’orizzontale per cercare speranze, per vedere l’inimmaginabile.
Le parole di Cecilia sdruciscono la notte. Arrampicano in orizzontale, puntando l’assenza. Hanno otto occhi.*
«Penso alla tua mail ricevuta più di un anno fa. Mi consigliavi di andare a Ostenda. Ebbene, no. Non ci sono mai andata. Per questa ragione: in tutta la mia vita, non ho mai visto il mare d’inverno. È sempre stato uno dei miei tabù preferiti. O se non altro, il mio sogno segreto. Per questo non mi sono mai spinta sulle coste occidentali delle Fiandre. Fino a quando ho riflettuto su una questione. Ho sempre concepito l’arrampicata – o in generale la salita – in verticale. Per sorgere dall’oppressione ovattata della città, da quella delle persone ansiose. E poi per quello che è il sogno, credo, di tutti gli arrampicatori; ovvero, raggiungere la cima della montagna per vedere l’inimmaginabile. Il dono di guardare l’invisibile toccandolo con gli occhi e sfiorandolo con la bocca. Solo i fantasmi hanno il privilegio di toccare questa assenza. E pochi, pochissimi uomini coraggiosi possono percepirlo.
Tuttavia, nella nuova era di Google Earth, è possibile vedere ogni cosa. La cima delle montagne aguzze, la terra scavata, la finestra del vicino di casa. E l’invisibile, senza volerlo, compare dappertutto. Ovunque! Ogni uomo può avere accesso alla sua bellezza. Tutti possono possederlo, tutti possono toccarlo, tutti possono stuprarlo. Buttato poi nel dimenticatoio della memoria collettiva.
Così, il povero invisibile, stanco e furioso di questa persecuzione virtuale, non risiede più in nessun luogo. È sceso assieme ai fantasmi, nascondendosi davanti agli occhi degli umani. Sfidando la velocità dei nostri sensi e la gravità del nostro corpo. È in grado di precedere la nostra immaginazione. È tutto e niente. Sfida la nostra assenza. Non lo vedi, ma lo senti nell’aria. Ne senti parlare da un orecchio all’altro. L’eterno gioco del telefono senza fili.
In Belgio ne sanno qualcosa. Non ci sono montagne e il cielo è decisamente più basso di quello delle Alpi. Il concetto di arrampicata è visto in orizzontale. È più difficile che mai. Si ha a che fare con un orizzonte al contrario. Non ci sono stagioni. Ogni cosa si dilata e non basta avere lo sguardo rivolto in alto. Bisogna spingersi in salti trasversali. Muta continuamente. Non a caso i belgi sono degli arrampicatori prodigi a confronto degli alpini. […]
Mi ricordo la prima lezione di danza acrobatica. Insegnavano come cadere. Certo, cadere sul materasso o per terra, non è un problema. È pur sempre una sicurezza. Ma cosa significa cadere nel vuoto? In un luogo in metamorfosi, dove non esiste un piano cartesiano? Questo, nessuno è in grado di insegnarlo. Per ora.
Solo le nuvole continuano a restare il mio modello di riferimento. Si muovono, si accumulano densamente e spariscono fluidamente. Nevica e allo stesso tempo c’è il sole. Non esiste un pentagramma definito. Non c’è una misura spaziale e temporale. Si vive nella dimensione del tra.
[…]
Come ben sai, le giornate di sole a Bruxelles sono delle eccezioni. Stravolge l’apparente pacatezza. Nell’aria, nei colori dei parchi, nel temperamento delle persone. Non credo che siano le giornate più pericolose. È un altro genere di tensione. Ma sicuramente sono le giornate più pungenti. Forse per quella luce tagliente.
Nel primo giorno di sole decisi di andare nella vecchia piscina comunale di Forest, quartiere popolare sud-ovest della città. Fu chiusa cinque anni fa. Poi fu trasformata in una discoteca. Dopo la chiusura, un posto qualunque.
Quando entrai fui spiazzata. Mi trovai di fronte ad una piscina vuota, coperta di tappeti rossi orientali. Un’intera piscina trasformata in una moschea.
La vasca fu il reparto degli uomini. Il reparto delle donne nella zona dei trampolini. E il reparto dei bambini nella zona sotterranea, quella delle docce.
Un canto s’insinuò nelle mie orecchie. Una voce maschile e ripetitiva. La sentii da lontano ma non capii da dove venisse. Mi tolsi le scarpe e percorsi la nuova moschea. Fino a quando trovai la provenienza di quella voce. Fu il canto di un uomo. Non so che corpo o che viso avesse. C’era un muro che ci separava. Quella distanza era perfetta. Così mi sedetti appoggiando l’orecchio al muro.
Il suono prese forma. Sentii le mani accarezzare il tappeto. La voce sfiorare il suolo. Non credo che capisse che ci fosse una presenza non maschile a pochi metri da lui. Poco importa. Ascoltai quella preghiera pronunciata in maniera impeccabile. E a lungo.
Nei giorni successivi, sempre in quelle giornate di sole, il primo ministro belga annunciò la minaccia terroristica di livello 4. I militari sono aumentati, ma ci sono sempre stati. La gente è sempre uscita. Solo più austera. Evita d’incrociare gli sguardi altrui per la paura di essere pietrificata dall’uomo ignoto. Una volta chiamato Dio, adesso Terrorista.
Al di là di tutto, penso che la risposta sia nell’uomo in quella piscina surreale. Immagina che canti così a lungo da infilarsi nelle fessure più inconsce delle nostre disperazioni. Distruggendo le fondamenta. Sorpassando i nostri letti e le nostre terre. Continuando a resistere. Continuando a meravigliarci. Soverchiando un luogo dove si smetta di piangere sulle nostre rabbie.
[…]
Ero sull’aereo mentre passavo le Alpi Occidentali. Stavolta ero io a guardare dall’alto verso il basso. Sembrava che le montagne perdessero forza. Cadessero e precipitassero ingoiate dalle loro stesse gole. Sbranando l’estate e divorando ciecamente l’autunno. Ora, lontana, non resta che un inverno asciutto.
Ma dove si posa il sentimento?»
* Gli estratti presentati provengono dal carteggio con Cecilia Borettaz, 2015.
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